biografia di marie curie
Ringrazio immensamente la collega Gabriella Anello per la condivisione di questa bellissima biografia di Marie Curie, pensata e scritta in prima persona. Anche chi non ha la fortuna di poter ascoltare questo testo nella lettura ad alta voce della sua autrice, può comunque leggerlo per immergersi nell’intensa e appassionante biografia di Marie Curie, e magari per intraprendere altri approfondimenti. Buona lettura!

Mi presento! Mi chiamo Marie Sklodowski e sono nata il 7 novembre 1867 a Varsavia in Polonia. Mia madre era la direttrice di una delle migliori scuole femminili della città. Mio padre, invece, faceva il professore. Insegnare era la sua vita, e parlava di scienza in continuazione come un’enciclopedia, ma più simpatico. Zosia, Jozef, Bronia e Helena sono i miei fratelli. Mi piaceva andare a scuola! Ho frequentato il ginnasio per le ragazze, mi sono impegnata tantissimo per 5 anni, e quando mi sono diplomata ero la prima della classe. Purtroppo per me e per le mie sorelle erano finiti gli studi. Infatti dopo il ginnasio ci si poteva iscrivere all’Università ma era riservata ai maschi e le donne non venivano ammesse. C’era solo una possibilità: andare a studiare all’estero, in un Paese dove anche le donne potevano frequentare l’università. Ma ci volevano molti soldi … e la mia famiglia non era abbastanza ricca. Andare all’università era un sogno che forse non avrei mai potuto realizzare. Una sera, io, mio padre e Bronia ci ritrovammo attorno a un tavolo. – Allora, figlie mie, – disse papà- avete deciso cosa fare del vostro futuro? – Io vorrei andare a studiare all’estero – disse Bronia – Anche io! – Mi piacerebbe accontentarvi, ma i miei risparmi non sono sufficienti per mandarvi all’estero. Ma perché in Polonia le donne non potevano andare all’università? Non era giusto! Finché mi venne un’idea. Così dissi a Bronia: – Ho un’idea che ti permetterà di studiare all’estero. E se funziona, potrò studiare all’estero anch’io. – E come vorresti fare? – Ti pagherò gli studi, lavorerò notte e giorno, mi proporrò come governante. E quando ti sarai laureata, troverai un buon lavoro così potrai pagare gli studi a me. Mia sorella accettò! Fu così che Bronia partì per la Francia e io, che allora avevo 18 anni, partii invece per un villaggio in campagna: avevo trovato lavoro come governante presso una famiglia del posto. Il lavoro era molto pesante, ma non mi importava, pensavo solo a quando me ne sarei andata alla Sorbona, l’Università di Parigi. Dopo alcuni anni arrivò una lettera di mia sorella Bronia che mi comunicava che era arrivato finalmente il momento che anche io potevo andare a Parigi! Fu così che, a 23 anni, mi ritrovai su un treno per Parigi. Dopo un viaggio durato molti giorni, giunsi a destinazione! Finalmente! Per la prima volta nella mia vita mi sentivo padrona del mio destino: ero in grado di fare qualunque cosa, ero abbastanza forte da superare ogni ostacolo! Quando mi iscrissi all’Università, su 9000 studenti c’erano solo 200 ragazze. E quando mi laureai in scienze, nel 1893, insieme a me c’era solo un’altra studentessa. Dopo la laurea, restai a Parigi e mi laureai anche in matematica. A questo punto che fare? La cosa più logica era tornare in Polonia, trovare un lavoro da professoressa. Se non che, proprio in quel periodo, incontrai un uomo diverso da tutti gli altri. Si chiamava Pierre Curie. Pierre era uno scienziato molto in gamba, addirittura geniale, anche se – qualcuno diceva – fosse un tipo un po’ strano. Un solitario. Insegnava scienze in una scuola che aveva un laboratorio molto grande… magari ogni tanto me lo avrebbe lasciato usare per continuare le mie ricerche. Così decisi di andare a cena con il mio professore, sua moglie e questo Pierre Curie. Quella sera, a tavola, ci sedemmo vicini e parlammo ininterrottamente. Ci incontrammo anche nei giorni e nei mesi successivi finché dopo le vacanze estive … – Ti andrebbe di diventare mia moglie? Non fu necessario rispondere. Ci sposammo con una cerimonia semplice. Andammo in viaggio di nozze in bicicletta, una delle tante passioni che avevamo in comune. Se Pierre fosse stato un uomo come gli altri del suo tempo, subito dopo il matrimonio mi avrebbe obbligata a rinunciare alla scienza, a chiudermi in casa e a pensare solo alla nostra nuova famiglia. Ma Pierre non era un uomo come gli altri: io e lui eravamo colleghi. Una squadra. Lavoravamo insieme, dividevamo equamente il suo laboratorio, ci scambiavamo idee e consigli su tutto. Iniziai la mia ricerca su alcuni raggi molto particolari, che erano stati scoperti proprio in quegli anni… i misteriosi raggi X! Capitò questo: un giorno, uno scienziato tedesco scoprì un sistema per creare dei raggi completamente invisibili e “spararli” contro un bersaglio. Lo scienziato si accorse che questi raggi X riuscivano a passare attraverso gli oggetti, ed erano capaci di impressionare una lastra fotografica (cioè, lasciavano il segno su una foto). Lo scienziato sperimentò i raggi X sulla mano della moglie, e riuscì così a fotografare le ossa! Aveva fatto la prima radiografia. La scoperta dei raggi X scatenò la curiosità di molti studiosi. Di che cosa erano fatti questi raggi? Qual era il loro segreto? Mentre tutti si scervellavano su questo problema, un altro scienziato, di nome Becquerel, stava facendo ricerche in un campo completamente diverso. Becquerel aveva scoperto che alcune sostanze brillano nel buio. Sono, cioè, fosforescenti. Da dove prendevano la loro energia luminosa? Forse dal Sole? Per verificare se l’ipotesi era giusta, Becquerel inventò un semplice esperimento: decise di mettere sulla finestra una lastra fotografica e un pezzetto di uranio, per osservare cosa sarebbe successo. Se non che, era una stagione nuvolosa e per giorni non ci fu neanche un raggio di sole. Così l’uranio e la lastra restarono chiusi in fondo a un armadio finché Becquerel, sfiduciato, decise di lasciar perdere tutto. Esperimento sospeso! Lo scienziato allora sviluppò la lastra… e vide che sulla foto c’era un’impronta! L’uranio aveva emesso raggi luminosi anche senza bisogno del Sole?!? Becquerel capì che l’uranio doveva essere un materiale molto speciale, che in qualche modo liberava energia sotto forma di raggi, simili ai raggi X. Senza saperlo, iI bravo scienziato aveva appena scoperto la radioattività. Solo che nessuno le aveva ancora dato questo nome. Non appena lessi le ricerche di Becquerel, cominciai subito a studiare l’uranio. Per prima cosa Pierre ed io decidemmo di misurare quanta energia emetteva l’uranio. Purtroppo era una sostanza molto difficile da trovare nella sua forma pura, però riuscimmo a ottenere un po’ di pechblenda, che è uno speciale minerale tutto nero. E che contiene uranio e altre sostanze senza valore. Poco a poco, a furia di fare esperimenti, io e Pierre ci accorgemmo di una cosa sorprendente: l’energia della pechblenda era più di quella che poteva produrre l’uranio da solo. Ciò significa una sola cosa: nel nostro strano minerale, oltre all’uranio, doveva esserci anche un’altra sostanza radioattiva. Una sostanza ancora sconosciuta. Io e Pierre prendemmo i sassi di pechblenda, li macinammo e li spruzzammo di sostanze chimiche. Eravamo come ricercatori d’oro sulle tracce di un favoloso tesoro. E, finalmente, cominciarono ad arrivare i risultati che erano così fantastici che non potevamo crederci: la pechblenda nascondeva non uno, ma addirittura due elementi misteriosi. Il primo lo chiamammo “polonio” in omaggio alla mia patria e, il secondo, “radio” Grazie a questa scoperta Pierre ed io diventammo famosi e considerati tra i massimi esperti mondiali di radioattività. A sorpresa ricevemmo una lettera dalla Svezia che ci annunciava che Becquerel, Pierre ed io avevamo vinto il famoso, prestigioso, premio Nobel! Nel frattempo, la nostra famiglia si stava allargando. Nel 1897 avevamo avuto una splendida bambina, Irene e l’anno dopo aver vinto il premio Nobel arrivò anche Eve. Sarebbe stato tutto perfetto … se non fosse stato per Pierre. Infatti cominciavo a essere molto, molto, preoccupata per lui. Mio marito era malato. Le sue mani erano così fragili che aveva problemi a vestirsi da solo. E, sempre più spesso, si lamentava per i dolori alle ossa, alle gambe e alla schiena, che gli impedivano di lavorare. Cosa gli stava succedendo? La stessa cosa che accadeva a me. Purtroppo le radiazioni della pechblenda erano molto pericolose, ma noi non lo sapevamo e maneggiavamo il materiale senza precauzioni. Come ogni giorno, Pierre andò a piedi all’Università dove insegnava. Non sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto. Pioveva, e per le strade c’era un gran traffico di carri, carrozze e tram. Pierre attraversò la strada e proprio in quel momento un carro sbucò all’improvviso e lo investì in pieno. Per lui non ci fu niente da fare. Dopo la sua morte, mi concentrai solo sulle mie figlie, che avevano bisogno di me, e cominciai a passare ogni momento libero in laboratorio. Quello era il posto speciale mio e di Pierre, e solo lì mi sembrava di averlo ancora vicino. Scrissi un trattato sulla radioattività. Era il libro più completo e autorevole mai scritto sull’argomento, e l’aveva scritto una donna. Devo dire che non mancarono le critiche… ma quando un gruppo di esperti di livello mondiale decise di stabilire uno standard per la misurazione del radio, propose il mio nome per occuparsene. La creazione di uno standard è una faccenda un po’ tecnica da spiegare, ma era molto importante, e riconosceva il grande lavoro che avevo portato a termine. Accettai la nuova sfida e mi ci dedicai con tutte le mie forze. Fu così che, nel 1911, l’Accademia di Svezia mi assegnò un altro premio Nobel. Io, una donna, avevo vinto due Nobel. Anzi, no: io, una persona, avevo vinto ben due Nobel. Prima di allora, non c’era mai riuscito nessuno. Scoppiò la guerra e fu chiaro da subito che una guerra così non si era mai combattuta. Impiegai i guadagni del mio secondo Premio per aiutare la Francia, e cercai di usare la mia conoscenza scientifica per alleviare le sofferenze dei feriti. Capii che la radioattività e le radiografie potevano essere molto utili per curare i soldati al fronte, così inventai degli impianti portatili e li caricai su delle speciali ambulanze. Imparai a guidare io stessa, per portarli fino al fronte! In questa pericolosa avventura mi aiutò mia figlia Irene, ormai diciottenne che aveva già deciso di seguire le orme mie e di Pierre. Dopo la fine della guerra, Irene ed io tornammo alla nostra vita e lei prese il posto di Pierre, accanto a me, nel nostro laboratorio. Decisi di sfruttare la mia fama per ottenere finanziamenti e costruire un Istituto del Radio, interamente dedicato alle ricerche sulla radioattività. Nel 1922 assunsi nell’Istituto Irene che cominciò a effettuare le sue prime ricerche scientifiche ed è proprio in Istituto che conobbe Frédéric Joliot, un brillante professore. La mia storia con Pierre era destinata a ripetersi: Frédéric e Irene si innamorarono e il 9 ottobre 1926 si sposarono. Gli sposi decisero di continuare gli studi iniziati da me e Pierre e le loro scoperte li portò ad un altro tipo di radioattività: la radioattività artificiale. Per questa importante scoperta mia figlia e mio genero vinsero il Premio Nobel nel 1935. Ma io non fui presente, perché il 4 luglio del 1934 a causa di una malattia provocata dalle radiazioni raggiunsi il mio adorato marito, Pierre! Lettura per l’articolo Biografia di Marie Curie: Marco Ciardi, Marie Curie, la signora dei mondi invisibili, Hoepli 2017. Simona Cerrato, Radioattività in famiglia, Editoriale Scienza 2003. Davide Morosinotto, Marie Curie, la signora dell’atomo, Edizioni El 2008.
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